"Una su tre – se non te, vicino a te" – Il resoconto della Conferenza del 25 ottobre

venerdì 04/11/2016

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"Una su tre – se non te, vicino a te" – Il resoconto della Conferenza del 25 ottobre

Leggi qui l'Introduzione alla Conferenza del 25 ottobre.

 

La Conferenza organizzata dall’ADBI su “La violenza sulle donne: quali leggi, quali sostegni?" e tenuta dalla presidentessa dell’associazione D.i.Re che raggruppa centri antiviolenza Titti Carrano è stata un’occasione importante per prendere coscienza di un fenomeno drammatico che richiede l’intervento di tutti per cercare di prevenire, intercettare i segnali di allarme e spingere le donne a cercare protezione. Contrastare la violenza alle donne dovrebbe essere un obiettivo da tenere a mente sempre e non solo nelle giornate ‘dedicate’ come il 25 novembre, la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.

L’ADBI si impegna su questo fronte per la gravissima situazione che ci chiama in causa come donne, come cittadine e come dipendenti della Banca d'Italia. Per far conoscere la dimensione del problema e analizzarne insieme cause e ripercussioni, ADBI ha invitato Titti Carrano, presidentessa dell'Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza D.i.Re., a presentare la sua attività, raccontarci quali leggi e quali sostegni ci sono, fornire la sua esperienza e suggerimenti sulle azioni e gli strumenti che sarebbero necessari per contrastare la violenza degli uomini contro le donne.

Il punto di partenza, che va sottolineato e tenuto sempre presente, secondo Titti Carrano, è che nella nostra società la violenza maschile è radicata, diffusa, strutturale. Il fenomeno va affrontato a tutti i livelli. Quali strumenti esistono?

La presenza di centri antiviolenza e di case rifugio è un primo strumento importante. È essenziale il loro coordinamento, al quale  contribuisce  la rete creata dall’Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza D.i.Re: i centrisono 77, sono sorti alla fine degli anni ’80 e si trovano in prevalenza nelle regioni del nord Italia. Purtroppo, sia i centri antiviolenza sia le case rifugio sono pochi rispetto a quanto suggeriscono le istituzioni internazionali.

Convegno_25_ottobre

Secondo la Raccomandazione ONU all’Italia, infatti, essi dovrebbero essere uno ogni 100.000 abitanti; il Report 2015 di Wave,  – Women against violence Europe,  la rete europea antiviolenza, segnala che in Italia ne mancano 5451. Le case rifugio sono pochissime, data la scarsità di finanziamenti, ma sono necessarie per ospitare le donne ed i loro figli. Anche la rete tra i centri anti violenza è informale. La carenza di strutture sul territorio è un limite forte ed il numero di donne uccise ogni anno è testimonianza della mancanza di una soluzione di sistema di un problema sociale.

Cosa fanno i centri antiviolenza? Si pongono come luogo di transito verso la riconquista di autonomia e libertà. Le vittime arrivano ai centri in genere dopo anni e anni di violenza, senza più autostima, né valorizzazione di sé e per questo occorre accompagnare le donne affinché si sentano garantite dall’anonimato e reagiscano per loro espressa volontà. I professionisti dei centri offrono, in reperibilità h24, sostegno di accoglienza, psicologico, pratico, relazionale, mai sostituendosi alla vittima nelle scelte che deve compiere; si tratta di un’attività complessa perché è difficile stilare un protocollo di intervento uguale per tutte le vittime e va intrapresa la costruzione di un progetto personale con ognuna di esse. Il primo contatto avviene con l’accoglienza telefonica: credere a ciò che raccontano le vittime – che hanno già dovuto superare vergogna, senso di colpa e paura - è la prima cosa. Poi si cerca di conoscere fisicamente le persone vittime di violenza e di dare tutte le informazioni e le consulenze psicologiche necessarie. Un altro importante servizio è la ricerca di soluzioni abitative e lavorative per rendere autonome le donne. Sono poi previsti interventi mirati per alcuni gruppi di vittime, ad esempio per le donne sfruttate sessualmente, e per i figli, che hanno interiorizzato modelli errati di relazione. E tutti i servizi sono gratuiti.

Creare delle relazioni con le vittime è il secondo elemento fondamentale: le donne vittime di violenza sono persone sminuite, non credute, inascoltate, isolate, minacciate ed arrivano ai centri spesso solo dopo anni di violenze. Queste donne hanno soprattutto bisogno di essere al centro di relazioni sociali e affettive dove siano protagoniste e libere. I centri antiviolenza cercano di restituire alle donne che vi si rivolgono la capacità di agire in autonomia, instaurando con esse una relazione di garanzia, offrendo loro protezione. I centri promuovono  cultura e formazione mediante attività di rete e coordinamento con i servizi pubblici e privati presenti sul territorio, che concorrono a fornire sicurezza, protezione e aiuto alle donne (pronto soccorso, servizi socio-sanitari, forze dell’ordine, istituzioni giudiziarie, associazioni ecc.).

Informazione e formazione sono un altro strumento importante. La Rete europea Wave – Women against violence Europe - e la sua irradiazione mondiale, confrontando diverse realtà, confermano il dato: una su tre. Una donna su tre subisce violenza in ogni parte del mondo ed in qualsiasi tipo di gruppo sociale. Si deve ancora far molto lavoro culturale per contemplare nelle leggi di protezione non solo la violenza fisica, ma anche le forme di violenza psicologica, economica, persecutoria e la violenza assistita da parte dei bambini, i figli delle vittime e dei colpevoli delle violenze, che ancora non sono tra quelle riconosciute come meritevoli di attenzione e prevenzione e poi protezione.

Finanziamenti pubblici e leggi ci sono, ma sono inadeguati. Dei 40 milioni di finanziamenti assegnati, la spesa effettiva non supera lo 0,6%. I centri antiviolenza ricevono, a conti fatti, meno di 5.600 euro l’anno, Le case rifugio, che devono assicurare una accoglienza immediata e gratuita, ricevono in un anno 6.700 euro.  Dal 2014 ad oggi DiRe ha fatto una lettura dal basso da parte di chi deve usufruire dei finanziamenti ed ha riscontrato estrema difficoltà. La stessa Corte dei Conti ha invitato il Dipartimento ad impiegare i finanziamenti, pari a 16 milioni per gli anni 2013/2014, che sono stati devoluti alle Regioni che ne hanno erogati solo il 20% ai centri antiviolenza. Il quadro normativo è frammentato e incoerente: da un lato, c’è  la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013,  che ha un approccio olistico ed è un vero e proprio trattato sui diritti umani delle donne, dall’altro c’è la Legge 119/2013, cosiddetta ‘legge femminicidio’ che è eterogenea, perché norma un aggregato di casistiche. Va invece tenuto presente che la violenza sulle donne è un dato strutturale della nostra società, che richiede un intervento globale e di sistema, non interventi estemporanei, in contesto di urgenza e ordine pubblico. La legge interviene solo con modifiche al codice penale, inasprendo le pene e inserendo nuove fattispecie di reato senza però assicurare alle vittime adeguata protezione a seguito della denuncia dal rischio di escalation che questa innesca. È invece importante precisare che le donne aggredite hanno bisogno di protezione dalle controreazioni e dalle ritorsioni da parte del denunciato. Anche la Legge di Stabilità 2015 è stata usata per intervenire, ma per finanziare il pronto soccorso delle donne vittime di violenza.

Serve un cambiamento culturale forte, che abbia come base soprattutto il coinvolgimento e la consapevolezza degli uomini. Il nostro contesto sociale-patriarcale non fa percepire il crimine della violenza maschile sulle donne. La violenza domestica è un fenomeno ricorrente in Italia e c'è una peculiarità rispetto ad altri paesi ma resta un fenomeno non affrontato con politiche pubbliche. Si deve instaurare un processo strutturato di analisi dei perché di questa attitudine tipicamente maschile. Ad esempio, manca una statistica strutturata: il Ministero dell’Interno non distingue per motivazione del femminicidio, ma il numero medio di 125 donne uccise ogni anno resta. A tale proposito, è importante che i centri DiRe abbiano ricevuto lo status consultivo del consiglio delle Nazioni Unite, per diffondere la conoscenza del fenomeno e segnalare le criticità tipiche del nostro Paese. Quanto alla partecipazione del genere maschile alla soluzione del problema, al momento esiste una sola associazione di uomini che collabora.

In conclusione, tutti possiamo fare qualcosa ed ognuno ha responsabilità: ciò che accade a una donna, accade a tutte le donne. Si deve educare nelle scuole, ma anche in famiglia, per avviare i giovani a tenere relazioni nel rispetto reciproco, paritario. 

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