Vizio o grammatica? Il linguaggio nella costruzione sociale dell’identità di genere


La richiesta di numerose ministre di essere nominate con la desinenza al femminile ha riaperto l’annoso dibattito sul sessismo linguistico, scoppiato in Italia alla fine degli anni ’80 e culminato con la pubblicazione del volume di Alma Sabatini “Il sessismo nella lingua italiana”, edito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Sabatini attribuiva al linguaggio un ruolo fondamentale nel ristabilire la “parità fra i sessi”, soprattutto in una società in cui usi e costumi ribadivano regolarmente la superiorità ideologica del genere maschile. La stampa italiana, in particolare, era artefice di questa costruzione della realtà: spesso titoli ed espressioni maschili venivano utilizzati anche quando esisteva ed era in uso il corrispondente femminile (ad esempio, “il senatore Susanna Agnelli”, “L’amministratore unico Marisa Bellisario”), alimentando gli stereotipi di genere che volevano le donne lontane dai ruoli appannaggio esclusivo degli uomini.

L’obiezione più comune all’impiego della forma femminile era la classica frase  “Suona male!”, frase che sentiamo ancora oggi, quasi trent’anni dopo la pubblicazione del volume di Sabatini.

Secondo il sondaggio “Linguaggio e Stereotipi di Genere” redatto da Snoq Genova nel 2014, infatti,  il 56,4% delle persone usa poco o mai i lemmi declinati al femminile, nella maggioranza dei casi per questioni estetiche quanto ideologiche: italiani e italiane spesso prediligono le forme al maschile per sottolineare la neutralità della professione rispetto al sesso di chi la esercita, senza tuttavia rendersi conto dell’ errore formale commesso. 

La credenza che il maschile sostituisca il genere neutro non trova reale rispondenza in grammatica: l’italiano ha due generi, maschile e femminile, mentre il neutro non esiste. Parlare al maschile significa orientare l’intero significato delle nostre conversazioni sul ruolo sociale dell’uomo, eliminando quasi del tutto la donna dall’immaginario collettivo.

Nominare le donne, usare le forme al femminile mostra la presenza delle donne, e quindi riequilibra la società e i suoi poteri.“ – spiega Stefania Cavagnoli, linguista e docente dell’Università Tor Vergata di Roma – “Credo che questa sia una forte motivazione per mantenere lo status quo.”

I termini ministra, senatrice o chirurga non rientrano nell’uso quotidiano perché considerate flessioni irrilevanti rispetto ai termini al maschile. Mentre infermiera o maestra, da sempre mestieri tipicamente femminili, passano il controllo dei “puristi” della lingua.

È L’abitudine reiterata che alimenta la disparità. Sentendo una formulazione di genere maschile, chiunque è portato naturalmente a concordare casi e termini con la stessa natura, ma è proprio questa consuetudine che eclissa le donne dal registro dedicato alle professioni “alte”.

Il linguaggio non è neutro e fa la differenza, come sottolineato dall’ADBI nella presentazione dellincontro con Anna Lisa Ghini lo scorso 10 marzo, occasione in cui sono state illustrate le linee guida del Ministero degli Affari Esteri per l’uso del linguaggio di genere.

Nella Pubblica Amministrazione, soprattutto, è importante creare delle norme che possano soppiantare le abitudini tramandate sino ad oggi, considerata la particolare natura emulativa del linguaggio istituzionale.

Partire da semplici regole grammaticali, quali la concordanza dell’articolo e del sostantivo, l’uso dei titoli declinati al femminile o l’impiego di forme realmente inclusive di entrambi i generi (forme impersonali, passive o termini collettivi come “corpo diplomatico” al posto di “diplomatici”), col tempo potrebbe provocare un grande cambiamento non solo nella lingua, ma anche nel nostro tessuto sociale.